Diciamo sempre che uno degli asset principali nelle organizzazioni sono le persone, il loro valore. Nella realtà organizzativa, però, sappiamo bene quanto tutto questo appartenga spesso alla retorica, più che all'azione organizzativa.
Per dare valore alle persone, alle loro differenze e unicità, le organizzazioni dovrebbero fermarsi a riflettere sulla loro cultura del conflitto. Conflitto inteso non come situazione particolare conseguente a qualcosa, ma come condizione endemica, intrinseca di ogni sistema complesso, che occorre analizzare, affrontare e disinnescare.
A questo proposito, mi vengono in mente alcune situazioni tipiche delle imprese familiari, che sono il massimo della complessità dal punto di vista del conflitto, poiché al loro interno si intrecciano tre sistemi sociali, portatori per loro natura di potenziale conflitto. Nell'impresa familiare si articolano:
Intorno alla proprietà c'è l’idea del fondatore, dei successori, di chi ha partecipato alla storia organizzativa. Il sistema della famiglia è quello delle dinamiche familiari implicite, che sottendono il vissuto di ciascuno di noi. Nei conflitti presenti in realtà aziendali familiari, vengono quindi a intrecciarsi sistemi complessi di detti e non detti, di storie e di dimensioni affettivo-emotive e non razionali. Si vorrebbe che fosse la razionalità a guidare le azioni, i processi decisionali nelle organizzazioni, eppure sappiamo bene quanto questi dipendano molto più spesso dal vissuto, dalla storia personale, da ciò che una persona ha accumulato come senso dell'esperienza vissuta. Questo intreccio di sistemi richiede una lucidità, una maturità da parte degli attori coinvolti nel conflitto, tesa a capire quali siano i temi che si affrontano sul piano della proprietà, delle dinamiche familiari e della gestione aziendale.
In ambienti di questo tipo, uno dei primi ostacoli che mi è capitato di riscontrare è legato al non riconoscimento, o addirittura alla negazione del conflitto. L'esempio che mi viene in mente è quello di un imprenditore, fondatore di un’azienda nata a livello artigianale e sviluppatasi nel tempo con tre divisioni di business, che negava l’evidenza del conflitto all’interno della sua impresa, attribuendolo semplicemente al modo di essere, al “carattere” dell’altra persona. Escludendo quindi a priori la propria parte di responsabilità legata all’esistenza stessa del conflitto.
Ebbene, in casi come questo, se il primo passo di una buona gestione del conflitto consiste nel riconoscimento dello stesso - soprattutto ai primi sintomi, non solo quando ormai è condizione patologica -, il secondo passo rimanda allo sviluppo delle competenze di leadership necessarie per intersecare le diversità delle persone in una dimensione più naturale possibile. Non è un processo istintivo: richiede infatti formazione ed educazione.
Tornando alla storia del mio imprenditore, sia nei confronti dei figli, sia nei confronti dei manager, egli preferiva ignorare il conflitto. Pertanto, non ha mai ammesso ragionamenti o riflessioni in merito a come gestirlo. Non nego che ciò abbia comunque permesso lo sviluppo dell'azienda, ma con grandi livelli di conformismo e ipocrisia che hanno tolto molte potenzialità all’azienda, considerando che in queste condizioni le persone non danno il meglio di sé ma si adeguano a ciò che vivono.
A questo proposito mi vengono in mente due metafore che Manfred Kets de Vries, studioso di management, leadership e delle dinamiche del cambiamento individuale e organizzativo, cita nel suo libro Effetto Porcospino per esplicitare proprio il tema del conflitto. Egli rapporta la relazione tra i gruppi e la conseguente ricerca di adeguamento all’immagine di due porcospini che, avendo freddo, si avvicinano e, urtando i rispettivi aculei, si fanno male. Da ciò si comprende che una relazione troppo ravvicinata non è salutare come non lo è una troppo distanziata.
La giusta distanza la si ottiene soltanto con il tempo, attraverso prove ed errori. Non è mica scontato che le persone sappiano collaborare in modo immediato! Quante volte, a primo impatto, abbiamo considerato qualcuno antipatico/a? Tuttavia, pur non essendo un esercizio semplice, è fondamentale educare il nostro slancio istintivo alla comprensione del valore della diversità e del confronto per raggiungere dei risultati.
La seconda metafora si ispira ad un proverbio ebraico: molto spesso le persone che lavorano insieme hanno l'atteggiamento di coloro che hanno un elefante nel salotto ma non lo vedono, si comportano come se non fosse presente. Si creano, così, situazioni in cui tutti sanno, tutti vedono, ma nessuno rende esplicito il non detto che, se non gestito, può rappresentare la base di potenziali conflitti. Conflitti che si sviluppano poi in escalation fino a picchi patologici, con un costo che ricade su tutti: persone, organizzazioni e risultati.
In conclusione, accogliere e superare il conflitto significa sviluppare la capacità di andare oltre il proprio punto di vista per comprendere quello dell'Altro. Accettare l’idea che non tutti concepiscono il mondo nel nostro stesso modo, costruendo una cultura in cui gli occhi degli altri ampliano la nostra visione.