Noi, quarta persona


Il nostro cervello, tra aspettative e proiezioni, cerca sempre di anticipare ciò che si sta preparando. Ma se questa attività è sempre stata difficile, ora i tempi imprevedibili e complessi non offrono abbastanza elementi per disegnare un quadro plausibile di quello che verrà.

Il futuro ha fatto il suo tempo. Ormai.

L’atto di pensare il futuro come una dimensione separata, come il punto di arrivo di una proiezione che partirebbe dal passato, come forma scissa del presente, è limitante, ne consuma e riduce il senso.

La riduzione del futuro a discorso mono-direzionale e mono-dimensionale è la forma più evidente dello scollamento sociale in corso: lo si proietta, lo si annuncia e predice e così non lo si lascia veramente libero di svolgersi.

Abbiamo sempre una serie di argomenti per ricondurlo ex-post nell’alveo delle previsioni.

C’è una continua tensione predittiva che nel suo tentativo di rassicurarci, apre voragini di senso, separa, relativizza e soprattutto appiattisce le vicende storiche e le dinamiche identitarie connesse: la previsione del futuro massifica la lettura del reale, interpreta il mondo riducendolo ad un indicativo, si vuole imporre trasformando la conoscenza in un atto di sola comunicazione. 

Nel momento stesso in cui lo si comunica, il futuro è già passato, perché ordinato e classificato.

Il futuro non può esser comunicato, può solo accadere e solo taciuto, è un contenuto che si cancella nel suo compiersi.

Dunque, se vogliamo immaginare in avanti è più efficace pensare aperto, in modo relativistico, includendo la possibilità di perturbazioni disciplinari e specificatamente sociali, quindi linguistiche. Meglio accogliere l’entropia.

 

Noi insieme. Con te.

Alcune grammatiche classificano il pronome noi, come quarta persona. Il concetto di insieme, l’idea di un continuo agire in uno spazio comune permeano la visione di un mondo non ancora presente, dimensione della possibilità che si contrappone alla probabilità (ricavata da dati riferibili al passato e quindi, come detto, ad un mondo già ampiamente consumato).

Quello che chiamiamo futuro si consuma in questa opposizione possibilità/probabilità. 

La prima è un’apertura che include la potenzialità del disordine; la seconda è difesa conservativa, disperata, di un ordine del passato, di una tassonomia che forziamo in avanti escludendo che fattori di disturbo inducano paesaggi diversi e non previsti.

Il Noi duale di certe grammatiche è, traslando il discorso in area sociale, il simbolo più interessante di questa concezione. Nella lingua indonesiana esistono due forme della prima persona plurale: kita e kami, la prima indica l’inclusione di chi sta ascoltando, mentre la seconda indica la sua esclusione.

Il pronome duale è usato anche nello yele, una lingua diffusa nella zona orientale di Papua-Nuova Guinea e nel quechua (lingua parlata in Perù, Bolivia, Ecuador, Cile, Colombia e Argentina) che usa sette pronomi personali di cui due per il Noi: uno inclusivo e l’altro esclusivo (“noi con te” opposto a “noi senza di te”).

Il Noi inclusivo è quarta persona, è l’immaginario, è il pronome che si colloca oggi al centro di ogni visione, attività, strategia. È famiglia, è impresa, è linguaggio in sé.

Il fattore di accelerazione delle vite, del lavoro e della società è in questa intenzione di inclusività. 

Un esempio di quarta persona è la figura delle comunità, un noi aggregato e connotato da appartenenza e impegno condiviso.

Non team, partiti, mercati, ma luoghi comuni definiti dal legame e da un obiettivo. 

Non discorsi ma interazioni, un linguaggio fatto di luoghi ed azioni intersecanti e non di parole, un’articolazione connotata di spazi per leganti molecolari: il luogo unico, anche temporaneo ma non riproducibile, prevale sull’architettura discorsiva standard e modulare fatta di dinamiche ed esiti sempre ripetuti.

Vendere implica un acquirente. Cosa accade, per esempio, se quel cliente si smaterializza, moltiplica, frammenta? O se si limita a usare -e non possedere- l’oggetto o il servizio? Oppure cambia il valore al prodotto (ri-significandolo), per poi reintrodurlo nel luogo/legame da cui lo ha prelevato?

L’interazione ha infinite possibilità di esercizio e declinazione. I luoghi di interazione hanno un’anima cangiante e strutturano un linguaggio nel loro stesso costruirsi, svolgendosi ma mai ripetendosi veramente.

La comunità che abita quei luoghi è linguaggio ed ha linguaggio, propri. Il linguaggio è il luogo nel quale gli esseri umani incontrano la conoscenza, è la loro casa comune. È un luogo di confronto, di incontro, di scontro.

La parola comunicata invece si oppone ai luoghi, tende ad isolarli, è talvolta silente, non è sempre uno strumento di trasduzione.

Quando Edipo si manifesta davanti alla comunità ottiene l’effetto opposto a quello desiderato.

Più parla, più si isola. Nel mondo classico la parola nell’eredità greca produce silenzio.

La comunicazione è l’opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti”, scrive Mario Perniola (Contro la comunicazione, Einaudi, 2004). 

La comunicazione trasfigura e distorce il linguaggio che è invece risultato della conoscenza, che consegue da un’esperienza di realtà. Conoscere è una prova, un’esperienza.

Per mezzo del linguaggio nei luoghi possiamo invece costruire un mondo virtuale e potenziato, condiviso con altri.

Virtuale, non opposto a reale, ma dimensione del possibile: immagini usate come corpi su cui sono scritti valori e significati, su cui sono proiettati desideri. 

Progettare (proiettare ne è l’origine) spazi è un atto eversivo che favorisce l’entropia perché introduce e dà forma a connessioni nuove. Ecco che il linguaggio si fa imago, magia.

La rappresentazione che il linguaggio permette attraverso intersezioni relazionali, fornisce un sistema di riferimento: il filosofo Charles Peirce chiama “semiosi illimitata” (processo di significazione continuo di segni che producono altri segni) questa attività di spostamento continuo, che è diventata l’asse primario dell’era digitale.

L’essere umano sembra quindi poter vivere non solo nel mondo cosiddetto “reale”, ma anche in molti “mondi possibili”, zone ad alta intensità relazionale basati su una ri-progettazione continua.

Caratteristica principale di questi mondi è la Porosità (proprietà oggi usata anche nelle scienze urbanistiche) del loro stato cognitivo ed anche linguistico.

Lasciarsi attraversare per attraversare, lasciarsi percorrere per lasciar correre e filtrare dati, informazioni, possibilità. Lasciarsi attraversare per farsi luogo, ogni volta diversi, ogni volta più ricchi.

Se vuoi un futuro coltiva la biodiversità, crea terreni porosi, strati di ascolto dedicato. 

Solo dall’incrocio di talenti trans-disciplinari, di persone “diverse” (viaggiatori, coltivatori, scienziati, sociologi, economisti, imprenditori, filosofi) può scaturire quella scintilla di originalità che emerge in un luogo nel quale la combinazione di nuove idee si fonde in qualcosa di sorprendente. 

Cross-functional è la dimensione (il luogo) del linguaggio che affronta l’entropia.

 

Scritto da

Giorgio Di Tullio

Identity, Community & Society - Giorgio è imprenditore, autore e progettista per la rigenerazione culturale e la trasformazione nelle organizzazioni. Coordina diversi gruppi di ricerca e di sviluppo per l’innovazione nell’identità, nei processi e nei prodotti. Tra i riconoscimenti annovera un Design Plus 2007, un Wallpaper Design Award 2009, tre Compassi d’Oro/Menzioni d’Onore Italiani e Internazionali nel 2008 e nel 2015.

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