Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo: cosa non sono gli high performing teams


La letteratura di business sugli high performing team è enorme, se poi ci aggiungiamo i video, i tutorial, le interviste… i materiali diventano infiniti, come per quasi ogni argomento che riguardi le aziende oggi.

Non sono un esperto dell’argomento, nel senso che non ne ho scritto ancora 😇. Chi mi conosce sa  che mi occupo di innovazione, strategia, modelli di business ed entrepreneurship, soprattutto nella sua versione aziendale: l’intrapreneurship. Però ho avuto la fortuna di lavorare in alcuni team che potremmo definire high performing, e soprattutto per una grande parte della mia carriera ho lavorato in team che non lo erano, e in qualche caso lo sono diventati.

Per cui, senza nessuna pretesa di completezza e sulla base della mia limitata esperienza, proverò a parlarne al negativo, cioè cosa non sono, secondo me, gli high-performing team (HPT, d’ora in poi, come se mancassero gli acronimi) e cosa non fanno.

E poiché i non HPT sono la maggioranza, altrimenti non se ne parlerebbe tanto, c’è anche un messaggio “rassicurante” in questa riflessione: non bisogna esserlo necessariamente. Se il business è solido, in un’industria non (ancora) soggetta a disruption, si può essere un team normale o anche solo un gruppo di individui legati a una gerarchia, semmai con potenti incentivi economici, senza che questo abbia impatti negativi sui risultati. 

Anzi a volte nella lettura dei vertici si inverte il rapporto di causa effetto: poiché i risultati (finanziari) sono ottimi, il team deve essere un HPT. Ma in realtà un HPT si vede nei momenti di difficoltà, nei cambiamenti sistemici, nei cigni neri. E aggiungerei, che se non se ne è mai fatta esperienza, non se ne capisce nemmeno il tanto parlarne, ma anche che se si è avuto la fortuna di lavorarci, ci se ne porta appresso una specie di nostalgia, che diventa insofferenza verso i non HPT.

E allora cosa non sono gli HPT

 

Non sono team con agende individuali nascoste.

O non allineate. Uno dei temi irrisolti dell’organizzazione aziendale oggi è la contraddizione tra l’incoraggiamento dello sforzo collettivo e la pratica della promozione individuale. La maggior parte delle persone in gamba in azienda vuole far carriera, è normale, ma quando questa tensione è nascosta, quando dietro proclami di unità di intenti, si nascondono gelosie, antipatie, manovre per mettere in difficoltà “l’avversario” più pericoloso, i risultati sono sempre sub-ottimali. Chi ha avuto modo di lavorare con “vecchi uomini FIAT” sa benissimo cosa intendo.

 

Non sono team dove ci si sente soli. 

Dove “c’è il mio lavoro e la mia performance innanzitutto”.

Ho visto gente molto in gamba non riuscire a capire che la sua performance non era sufficiente, che rallentare per dare una mano a un collega in difficoltà era più importante e utile che essere la star del team. Ho vissuto, spesso appena arrivato in un nuova azienda non HPT, momenti di solitudine dove non c’era quel reciproco sostegno che diventa un moltiplicatore.

 

Non sono team guidati (solo) dalla performance finanziaria o da KPIs. 

Siamo davvero tutti dentro solo per un fine economico? O forse questa è una posizione altrettanto ideologica (figlia dell’iperliberismo, ancora imperante in molti ambiti aziendali), che finisce per avere effetti nefasti sul comportamento di individui e aziende (con il grande vantaggio della deresponsabilizzazione dovuta allo spezzettamento dei compiti). Mentre oggi il mondo ci richiede un approccio olistico e una visione di insieme. Intendiamoci, quello che non si misura, non si controlla, ma ho visto decisioni dannose per l’azienda, per i suoi membri e per la società, perché qualcuno doveva “portarsi a casa” il bonus. Ricordo ancora con orrore un CFO che dopo una ristrutturazione lacrime e sangue mi diede di gomito e mi disse che con un po’ di fortuna avremmo raggiunto il bonus, dopo aver licenziato centinaia di persone. Come ho visto persone felici di aver raggiunto un KPI quando non aveva più senso o perché il piano era sbagliato o perché il contesto era mutato drasticamente, per esempio l’IBM italiana degli anni ’90, dove lavoravo, contenta della sua crescita al 30%, in un mercato IT dove i PC, che pure aveva contribuito a sdoganare da giocattolo a strumento di lavoro, crescevano a tripla cifra.

 

Non sono team dove si tiene per sé qualcosa di importante. 

Soprattutto le riserve sul fare qualcosa. 

Quante volte ci è capitato di fronte al fallimento di una iniziativa, di un piano, di un progetto, di dire a noi stessi “lo sapevo”, mentre nel momento critico avevamo taciuto, o peggio ancora quando, dopo il disastro, diciamo “io l’avevo detto”, ma sottovoce, a un paio di colleghi, casomai non avendo dato all’iniziativa il supporto necessario. Questa yesmanship, questo allinearsi sempre, questo atteggiamento che gli americani chiamano CMA, cover my ass, nei non HPT viene confuso con la disciplina, viene apprezzato dai capi che fanno second guessing in continuazione invece di dare autonomia e responsabilità a chi quella cosa la conosce e gestisce. Anzi è proprio in quel sostituire il proprio giudizio a quello del responsabile che molti capi si sentono tali.

 

Non sono team dove sbagliare è sbagliato.

E non si cerca il capro espiatorio. Diretta conseguenza del “non” precedente e forse la cosa più pericolosa oggi. Dietro tanto parlare di sperimentare, di entre/intrapreneurship, di start-up, la paura di sbagliare attanaglia manager e aziende. E infatti la versione non HPT dell’innovazione è comprare le start-up che ce l’hanno fatta, che hanno preso i rischi per noi, finendo per raccattare, nella maggior parte dei casi, quelle che erano meno sicure di farcela (altrimenti avrebbero fatto da sole) o uccidere quelle di potenziale, perché, dei veri innovatori, non possono sopravvivere in una cultura dove non si può sperimentare in continuazione. 2 esempi mi vengono in mente, un’azienda di medio alta tecnologia che stava vivendo una transizione tecnologica, che mi mette in mano il nuovo processo di innovazione, mai ancora tentato, con sopra scritto “versione 17”. E un’azienda che incorpora una start-up partecipata che aveva portato competenze software fondamentali per vedere andare via l’80% del team in 6 mesi.

Ecco, concluderei citando il poeta Montale: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

Scritto da

Jose D'Alessandro

Entrepreneur, Innovation, Management & Marketing - Laureato in Economia alla Luiss e MBA in Marketing, Comunicazione e Vendite, ha lavorato come Manager di alcuni dei principali marchi mondiali, come Coca-Cola, Pirelli, Dunlop, Vespa e Moto Guzzi. In qualità di mentor, collaborando con Wyde e la LUISS Business School in qualità di Professor of Practice, propone le sue riflessioni su strategia, modello di business e imprenditorialità in tempi di incertezza.

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