Intervista a Marco Ossani: la facilitazione come chiave per superare il conflitto.


Nella nostra quotidianità, ci troviamo ad essere protagonisti o testimoni di situazioni che implicano spesso una frizione, un contrasto tra due parti. Soprattutto i conflitti di matrice ideologica derivano dallo scontro tra visioni del mondo che non risultano conciliabili e che tentano di prevalere l’una sull’altra, anziché confrontarsi e convivere. E nel momento in cui si inneggia al conflitto, a emergere è anche il desiderio di vincere l’avversario: troppo spesso, infatti, non solo si ha l’obiettivo di annientare l’idea, ma anche colui che la sostiene, personalizzando il processo in chiave distruttiva.

Nel tentativo di voler comprendere cosa dia origine a questi scontri, abbiamo chiesto al nostro wyder Marco Ossani, Entrepreneurship & Business Developer e Leadership Designer, di illustrarci dinamiche, evoluzioni e possibili soluzioni ai conflitti interni alle organizzazioni.

La chiave che apre la porta del confronto si trova alla fine di una scala, la scala dell'inferenza, che dobbiamo percorrere e ripercorrere fino a che non incontriamo l'Altro.

Perché nella realtà odierna il conflitto sembra raggiungere livelli sempre più alti e preoccupanti?

Molti studi di psicologia sostengono che, nelle situazioni di complessità e incertezza sul futuro come quelle che stiamo vivendo oggi, il conflitto aumenta perché abbiamo bisogno di aggrapparci a delle certezze e convinzioni molto forti che si trasformano in credenze di cui non riusciamo più fare a meno. Difendiamo tali idee e visioni del mondo ad ogni costo e, anziché confrontarci con gli altri riguardo i nostri vissuti e le nostre esperienze, li combattiamo per custodire e far avanzare la nostra posizione.

Come possiamo riflettere sul modo in cui ragioniamo, formuliamo assunzioni e traiamo conclusioni?

Per comprendere meglio da cosa scaturisca il conflitto potremmo rifarci alla scala dell’inferenza dell’illustre psicologo Chris Argyris. Alla base vi sono i fatti, ciò che osserviamo o che ascoltiamo, includendo sempre un elemento di soggettività, più o meno consapevole, che ci porta a scegliere che cosa osservare ed ascoltare. Una volta appresi i fatti, si deve dar loro significato. Il “sensemaking” è uno dei processi fondamentali della conoscenza umana che confluisce nella formulazione delle assunzioni. Anch’esse sono arbitrarie, essendo condizionate da fattori personali, ambientali, sociali, culturali, aziendali. Da qui, siamo in grado di trarre delle conclusioni razionali che includono, però, anche delle componenti emotive. Ciò non toglie che queste possano diventare per noi qualcosa di universale, una credenza, una “religione”, un'affermazione indiscutibile. In base ad esse, poi, agiamo.

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In fondo alla scala dell’inferenza ci sono i fatti, in cima ci sono le azioni e le decisioni. I gradini intermedi sono – partendo dal basso – la creazione di significato, le assunzioni, le conclusioni ed eventualmente le convinzioni o credenze. Tale processo avviene a velocità elevatissima nella nostra mente. È il modo rapido e fondamentale che abbiamo di procedere. Ecco, la scala dell’inferenza ci permette di essere consapevoli di come stiamo ragionando. Per essere consapevoli di come stiamo ragionando, dobbiamo essere in grado di parlarne ed eventualmente di spiegarlo agli altri. E questo sarebbe un primo passo per giungere al confronto ed evitare i conflitti nella nostra quotidianità. Dobbiamo essere in grado di fare questo esercizio e ripercorrere la scala dell’inferenza all'indietro per capire che cosa abbiamo fatto per arrivare a una certa decisione o convinzione.

Quando entra in gioco l’Altro? In quale terreno “di compromesso” si incontrano le differenti e divergenti visioni?

La comprensione dell’esistenza della propria soggettività e, soprattutto, di un altro punto di vista è un passaggio essenziale. Si apre da qui il momento dell’ascolto dell’Altro, condividendo reciprocamente i modi in cui abbiamo ragionato e cercando di arrivare a qualcosa di comune che può essere rintracciato soltanto nei fatti in quanto replicabili ed appartenenti ad una categoria più vicina possibile all’oggettività. Siamo noi a dover realizzare di aver aggiunto una componente soggettiva. Si tratta di un momento creativo importante in cui ci aiutiamo reciprocamente a vedere la realtà ed il mondo anche con gli occhi degli altri, osservando fatti diversi e, di conseguenza, elaborando conclusioni diverse.

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Come fa una organizzazione, un'azienda, un'impresa, un'istituzione ad affrontare il conflitto?

Il processo appena descritto è di notevole complessità. Le organizzazioni possono affidarsi ad un facilitatore che agevoli una capacità di ascolto e una disponibilità reciproca a raccontarsi nei modi di ragionare. Facilitare è una disciplina imprescindibile che riguarda i gruppi ed il facilitatore rappresenta un catalizzatore che aiuta il gruppo a far emergere qualcosa con una intenzione ben precisa. Si parte da un'intenzione che può essere una sfida, una domanda, un problema e si utilizzano i processi scelti dal buon facilitatore, organizzati nel tempo, nello spazio e nei modi per ottenere il risultato migliore per quel gruppo specifico, in quel contesto. Non esiste una metodologia unica di facilitazione. Esistono molteplici combinazioni di queste metodologie per permettere al gruppo di esprimersi nel modo migliore, più creativo, più comprensivo per favorire l’ascolto. Esistono dei metodi che vengono combinati e modificati addirittura durante lo svolgimento per permettere al gruppo di avere il suo spazio. Ricorrendo ad una metafora, il facilitatore deve riuscire a sbloccare la serratura o addirittura romperla, se necessario. In questo caso la serratura è l'aspetto emotivo e personale che si è sovrapposto al confronto tra idee diverse. Per fare questo, si deve aiutare le persone a vedersi come persone e non come portatori dell'idea avversaria. La persona non è quello che mi sta attaccando per vincere con la sua idea diversa dalla mia ma è una persona con le sue idee, le sue emozioni e la sua storia.

Sbloccata la “serratura” emotiva, come si apre la porta del confronto per risolvere il conflitto?

Dobbiamo ritornare alla scala dell’inferenza che aiuta a non ruotare più attorno al proprio cardine inziale, per accettare di scendere insime ad un grado più profondo di consenso. È la fase di accettazione reciproca: siamo ora disposti a ricevere i fatti “nuovi” di cui gli altri ci fanno dono. Il conflitto lascia il campo alla gratitudine del singolo verso l’Altro che gli ha permesso di abbracciare punti di vista e atteggiamenti diversi. Alla fine di questo processo, nell’organizzazione inizia ad instaurarsi una cultura di accettazione, di apertura, di ascolto, di considerazione delle idee degli altri. Si sviluppa anche la capacità di raccontare le proprie idee, oltra a quella di aiutare gli altri a raccontarle. Da ciò, il valore aggiunto della risoluzione che implica anche un investimento sul futuro, riducendo l’ineluttabile necessità che talvolta abbiamo di far avvenire il conflitto, per ovviare alla necessità di certezze. Quindi la soluzione dei conflitti - in tutti i livelli di negoziazione, in qualunque momento ed in qualunque contesto - costituisce un momento creativo in cui ci aiutiamo vicendevolmente a trovare delle alternative ai nostri modi di essere e di pensare individuali.

Scritto da

We Wyde

Wyde è una Connective School formata da da psicologi, filosofi, antropologi, performer, economisti, imprenditori, manager, esperti di hr e comunicazione, accademici e designer, che si occupa di cambiamento organizzativo e sviluppo manageriale. La mission di Wyde è quella di accompagnare persone, team e organizzazioni a connettersi tra loro e con il loro futuro.

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