Aldous Huxley diceva che se c’è una cosa che la storia ci insegna è che gli uomini non imparano nulla dalla storia. Mai affermazione fu più attuale! Le radici dei nostri conflitti affondano nel passato, prossimo e remoto, come quelle degli alberi nella terra che li sostiene. Non c’è quindi vero conflict management che non passi per uno studio attento di questa filogenesi storica. Lo avrete già capito: parliamo di Ucraina!
Il conflitto che si para innanzi ai nostri occhi, come i tanti che l’hanno preceduto e che, purtroppo, ne seguiranno, non è il prodotto estemporaneo di una congiuntura sfavorevole, ma l’ultimo tassello di una complessa sequenza di eventi storici, religiosi, culturali e sociologici che cercheremo, in queste pagine, di ricostruire. Non per arrivare ad un giudizio di merito, non sarebbe peraltro questa la sede, quanto piuttosto per porre le premesse di una ricostruzione del contesto sul quale la crisi attuale si staglia, lasciando ai nostri lettori la possibilità di trarne le conclusioni che riterranno essere più opportune, nel convincimento che la gestione dei conflitti sia soprattutto il frutto di un realistico lavoro di ricostruzione e integrazione che, nella ricomposizione delle opposte ragioni, deve trovare il filo di quell’arte antica e nobile che si chiama, appunto, “negoziazione”.
Detto ciò, non stupirà che la ricostruzione storica delle origini di questo conflitto possa prendere le mosse non da una contrapposizione, ma da qualcosa che unisce, da un passato comune in cui lo spirito ucraino e quello russo, lungi dall’essere contrapposti, si uniscono: stiamo parlando della Rus’ di Kiev, un nome che ai più dirà sicuramente molto poco, ma che già nei termini di cui si compone rivela un profondo tratto di connessione tra due realtà che sembrano oggi irrimediabilmente contrapposte.
Davanti a eventi di questa drammaticità, due sono le possibili reazioni: la prima è quella di rifugiarsi in un indefinito e idealistico wishful thinking, che troverà verosimilmente la sua espressione in argomentazioni astratte del tipo: “che brutta la guerra!” o ancora “no a tutte le guerre!”. La seconda è quella di prendere atto che il conflitto, di qualunque natura esso sia, appartiene purtroppo alla dinamica intrinseca delle vicende umane, ma anche di quelle biologiche, geologiche e via dicendo.
Perché conflitti sono in fondo gran parte dei fenomeni che la natura stessa offre ai nostri occhi: dall’eruzione dei vulcani, alla deriva dei continenti, allo scontro tra placche tettoniche, fino alla lotta per la sopravvivenza tra le specie animali. Il conflitto rappresenta lo strumento attraverso il quale i sistemi complessi cercano di trovare un nuovo e più funzionale equilibrio e, come tale, non è né buono, né cattivo: è naturale. Il problema non è quindi quello di opporsi al conflitto, sarebbe una battaglia persa in partenza, ma quello di trovare piuttosto un modo giusto di confliggere, una strategia intelligente e razionale che consenta al conflitto di ricomporsi in quello che, con un linguaggio organizzativo, potremmo pragmaticamente definire ‘negoziato’.
Sì, perché la vera risposta al conflitto, ciò che impedisce al conflitto di degenerare in tragedia, è la negoziazione, un’arte antica che, muovendo oltre l’idealismo astratto, coglie il conflitto come una necessità inevitabile e vi si immerge con una strategia che cerca di limitarne e arginarne i danni, ponendo le premesse perché questo si risolva in breve tempo e col minor spargimento di sangue possibile. Di tale strategia negoziale, che tutti i giorni siamo chiamati a sperimentare anche nelle nostre vite individuali e organizzative, un elemento centrale è la contestualizzazione, vale a dire la capacità di leggere le cose nel loro quadro di riferimento, come abbiamo cercato di fare in questa pagine, per capire che in un conflitto non ci sono mai una ragione e un torto, ma due torti e due ragioni, sempre.
Scritto da
Tommaso Limonta
Project Manager International and Institutional Projects