“Bloom”: titolo della nostra wyde-letter e punto di partenza per la “riflessione ad alta voce” di oggi.
Riflessione che mi sembra pertinente per almeno due motivi: primo, perché è come se la primavera avesse scelto di annunciarsi oggi, circondandomi di fiori che sembrano sbocciare “così”, all’improvviso, ma che erano in serbo da tempo. Secondo, perché è passato un anno dalla prima notizia del virus e siamo ancora in piena pandemia, “chiusi” dentro le nostre case. Pertanto, una riflessione sulla fioritura, su ciò che è -fondamentalmente- rinascita e apertura, mi sembra ancora più pertinente.
Questa, però, non è una riflessione su come la società può e “deve” emergere più forte dalla crisi, bensì una riflessione più intima, da coach; una di quelle considerazioni che, in genere, condivido ad “alta voce” con i Wyders.
Come possiamo sbocciare, dispiegare il nostro “miglior essere”?
Questa è una domanda che mi stimola da tempo e che è alla base del mio approccio al coaching.
Prima di rispondere alla domanda però, voglio ampliare un momento lo sguardo, provare ad espandere la questione.
O. Wilde, ironizzando sul processo di individuazione consapevole invocato da C. Jung, affermava che possiamo essere solo noi stessi:
Be yourself. Everybody else is taken. (Oscar Wilde)
C. Jung invitava ad esserlo consapevolmente:
Ciò che la natura richiede al melo è che produca mele e al pero che produca pere. Da me la natura vuole che io sia semplicemente un uomo, ma un uomo cosciente di ciò che è. (Carl Jung)
La metafora adottata da C. Jung ci riporta al mondo della natura e al concetto di “fiorire”, richiama la spinta inevitabile all’autenticità: un salice può crescere più o meno felicemente e pienamente, ma non può diventare una quercia o un faggio, neanche se altri lo volessero diverso. “Deve” conoscere e seguire la propria natura.
Da qui il primo arricchimento alla domanda: come conciliare la necessità di autenticità con la richiesta di flessibilità e cambiamento? Dietro ogni richiesta di coaching c’è una domanda di crescita/cambiamento: un nuovo ruolo, una nuova cultura, nuove competenze da acquisire. E sono certa che, anche al di fuori del coaching, a chiunque stia leggendo sarà capitato almeno una volta di ricevere inviti, più o meno gentili, al cambiamento: richieste di flessibilità, inviti ad essere “più” qualcosa (gentile, determinato, ecc…) o “meno” qualcos’altro (accondiscendente, dominante, ecc…).
Come quindi fiorire, dispiegarsi, evitando i due estremi? Estremi che, quando tendono all’autenticità, quando sono troppo “uguali a se stessi”, comportano un rischio collegato all’irrigidimento, all’incapacità di aprirsi e cambiare. E quando sono troppo flessibili, — viceversa — rischiano di trasformare le persone in camaleonti, poco riconoscibili, poco costanti, poco autentici.
In questo primo step, la nostra domanda diventa quindi:
Come possiamo crescere rimanendo fedeli a noi stessi, ma non “sempre uguali” a noi stessi? Come conciliare l’esigenza di autenticità con quella di flessibilità e continuo cambiamento?
Vengo al secondo arricchimento (mica per niente la mia appartenenza a Wyde, come rete e comunità che amplia lo sguardo e le possibilità!). Ci vuole un forte senso di identità per farsi strada come individui, ma siamo anche animali sociali in connessione con le varie tribù che abitiamo e che inevitabilmente avanzano richieste nei nostri confronti.
Il nostro quesito si trasforma, la nostra domanda diventa:
Come coltivare un senso di individuazione sufficientemente forte da essere nostro veicolo e biglietto da visita nella società, senza diventare individualisti o egoisti?
Sono anni che lo chiedo a me stessa e che, pensando ai miei coachee, mi chiedo:
Come possiamo crescere, rimanendo autenticamente “noi”, arrivando a raggiungere il nostro potenziale e, allo stesso tempo, cambiare e adattarci alle esigenze delle comunità che abitiamo?
Alcune domande sono così: ci accompagnano negli anni. Bisogna saperci convivere, come ci invita a fare R. M. Rilke:
Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.Rainer Maria Rilke (da Lettera ad un giovane poeta)
Non ho ancora una risposta definitiva e mi piace che la riflessione sul verbo “bloom” possa contenere due inevitabili tensioni o polarità: autenticità/adattamento e individuo/comunità.
Del resto, il vocabolo “bloom” proviene dal mondo delle piante, un mondo dagli equilibri dinamici in cui tutto è ciclico. Una pianta o un albero non possono essere sempre in fiore, ci sono fasi e cicli che si susseguono. Bisogna, come ci ricorda Barry Johnson, uscire dalla logica del problem solving per entrare in quella della gestione delle polarità: gestione che procede, appunto, per cicli e che richiede la sensibilità di notare quando si sta esagerando in una direzione, per poi compensare andando in modo dinamico nell’altra. Si tratta di saper creare e tollerare oscillazioni cicliche tra tensioni che sono insite nei sistemi che abitiamo. Anche il solo atto di respirare è esso stesso un’oscillazione continua.
Ecco quindi l’incipit per rispondere alla questione relativa alla gestione delle tensioni tra autenticità e flessibilità, tra individuo e comunità. Si può coltivare l’autenticità conoscendo e rimanendo fedeli alla propria essenza e, nello stesso tempo, adattarsi alle esigenze delle persone e del contesto.
Valorizzare la propria essenza è parte integrante dell’idea di benessere, implicita nel concetto di “bloom”. Qui va però chiarita una cosa a tutti coloro che inseguono la felicità. “Fulfillment” (appagamento, ma anche realizzazione del proprio destino) non è felicità.
Nel coaching ho potuto vedere che le persone inseguono spesso un’idea vaga e fuorviante di “felicità”. La rimandano, come una qualche condizione ideale e particolare che raggiungeranno “una volta che…” (avranno ottenuto la promozione, fatto una vacanza, ecc…). C’è una differenza importante, invece, tra il “fulfillment”, implicito nel concetto di “bloom”, e la felicità. Ciò che concretamente appaga, che ci fa stare bene nel momento presente, è più simile a quello che Csizenmihalyi ha definito “flow”, che non è “felicità”, bensì un benessere emotivo legato al raggiungimento di un certo stato che è destinato ad evaporare non appena quello stato, inevitabilmente, cambierà (la promozione non soddisfa più, la vacanza finisce ecc…).
Ascoltando centinaia di persone ho avuto la conferma che gli elementi che connotano queste fasi di “fioritura” o “blooming” possono essere molto diversi tra loro, ma hanno alcune caratteristiche in comune. Sono fasi in cui agiamo in linea con i nostri valori, usiamo le nostre attitudini o “aree di forza naturali” e siamo al servizio di qualcosa che è più grande di noi, che per noi ha senso e significato.
Agendo in accordo con i nostri valori ci sentiamo bene ed integri. Usando le nostre attitudini al servizio di un purpose condiviso con altri (come raccontava Marco Ossani in questi video) ci sentiamo “noi stessi”, riconosciuti e utili. Questo è prosperare, fiorire, dispiegarsi. È alla nostra cifra personale e unica, alla nostra “blueprint” o “impronta”, che occorre rimanere “fedeli” mentre tutto il resto (esperienze, idee, competenze) può e deve evolvere per essere a servizio delle comunità che abitiamo.
Possiamo fiorire pienamente se conosciamo la nostra impronta, e possiamo farlo in armonia con il contesto se siamo in grado di ascoltare e cogliere le richieste implicite ed esplicite delle comunità in cui viviamo.
Siamo più allenati a soddisfare richieste che a riconoscere la nostra stessa impronta. Dinanzi alla domanda “qual è il suo talento naturale, la sua distintività a parità di competenze ed esperienza?” spesso le persone rimangono interdette. Non sanno dare voce alla propria essenza. Del resto, il mondo, gli altri, ci inviteranno sempre a trasformarci per appartenere alla comunità. Siamo continuamente chiamati ad ascoltare, cambiare, acquisire nuove idee e competenze. Lasciati a noi stessi, d’altronde, rischiamo di trascurare noi stessi e, quindi, di non fiorire pienamente. Possiamo addirittura perderci, cercando di assomigliare a qualcun altro o assecondando tutte le richieste che ci arrivano.
Scritto da
Morag McGill
Personal and Organizational Renewal - Morag ha studiato in Gran Bretagna e Australia, dove si è laureata in Lettere e Storia con una specializzazione post-laurea in Pedagogia. È Emergenetics Coach certificata, Corporate Coach U Italy ed è anche membro dell’International Association for Coaching (IAC).