È una di quelle domeniche pomeriggio di gennaio in cui il freddo è arrivato ad avvolgere Milano e l’unica cosa di cui ho voglia è stare al caldo di fronte a una tazza di tè. In sottofondo ci sono i Pearl Jam ed è sempre la musica ad aiutarmi nelle riflessioni, in particolare una canzone di Eddie Vedder, Longing to Belong. Parla del desiderio di appartenere, nel suo caso alla sua fortunata compagna, ma mi piace pensare che sia una sentimento che si può allargare ad un sogno, ad una passione, ad una comunità, ad una impresa.
Cosa significa appartenere? Io appartengo alla mia famiglia, al mondo degli affetti, alla società che ho creato… Saper appartenere è un sentimento, non riguarda fatti e oggettività. Fornisce un senso di significato e scopo.
Ma se l’appartenenza non fosse solo un sentimento ma un’abilità che si può coltivare?
Immaginiamo di poter provare un profondo senso di pace ovunque ci troviamo – la sensazione di essere al sicuro e esattamente in quel posto e in quel momento, sia che siamo in una nuova città sia che siamo seduti di fronte a un Consiglio di Amministrazione durante una presentazione o ancora, mentre percorriamo una via sconosciuta dopo averne preso un'altra sbagliata. Nonostante ci troviamo in un posto scomodo o strano, sentiamo comunque di appartenere.
Nell’ultimo viaggio di lavoro che ho fatto in Canada ho provato la sensazione di essere al sicuro ed esattamente dove dovevo essere in quel momento. Non mi capita molte volte di arrivare in un paese straniero, che vedo forse per la prima volta e di sentirmi tranquilla, di appartenere a quel momento. E mi sono chiesta come mai.
Quando parto per un viaggio e lascio la familiarità del mio mondo, mi nasce sempre una sensazione di ansia e di tensione. Non sono tranquilla. Forse perché la mia mente come quella di tutti, come dice Daniel Kahneman, è stata sviluppata per dare naturalmente un’elevata attenzione agli stimoli negativi. una sorta di istinto per la sopravvivenza, uno stratagemma elaborato dal cervello per sopravvivere alla selezione naturale.
Cosa c’era di diverso? Cosa era cambiato?
La prima cosa che ho notato è che il mio “modo di stare” era diverso. Era un viaggio di lavoro dove l’obiettivo era quello di presentare Wyde a un gruppo di manager internazionali, in questo caso canadesi. Un sogno pensato, progettato, avviato e che si stava consolidando. Stavo sperimentando un senso di connessione che, a ben vedere, è il punto di partenza per sperimentare l’appartenenza.
È credere nell'essere parte di qualcosa di significativo e avere fiducia nel fatto che si è proprio si dovrebbe essere.
È un lavoro che parte dentro di noi, perché l'appartenenza, come dice Brené Brown, è l'opposto dell'adattamento. Non accade quando cambi il tuo aspetto o quello che pensi o dici. Accade quando prendi la decisione di accettare profondamente chi sei.
Per sperimentare il potere della vera appartenenza, quindi, devi allenarti a testimoniare sia il tuo paesaggio interiore sia il mondo che ora ti circonda in modo diverso.
Per fare questo ci vuole coraggio: la seconda delle doti che possono aiutare a coltivare questo modo di essere. Il coraggio ti permette di mettere in pratica la lezione e di aprirti a nuove connessioni positive. Osando guardare più in là, esponendosi, dicendo qualcosa di scomodo, uscendo dal già fatto.
Il terzo stimolo l’ho avuto da Ashley Thompson con cui ho condiviso questo viaggio. Le caratteristiche più evidenti di Ashley sono la curiosità e la capacità naturale di mettersi in connessione con le persone che incontra. L’idea è che, non importa quanto piccola sia l’interazione, puoi sempre trovare almeno una cosa che avete in comune, anche se si tratta solo, per esempio, di avere gli occhi dello stesso colore o di ritrovarsi a comprare lo stesso oggetto in negozio. Potrebbe sembrare sciocco, ma è un riconoscimento molto potente perché ci rende più presenti, tanto da permetterci di comunicare meglio e scoprire, a poco a poco, che la nostra prospettiva inizia a cambiare. La curiosità può diventare una pratica arricchente: se siamo curiosi di noi stessi, è probabile che saremo curiosi anche degli altri.
Riconoscere che le persone sperimentano le stesse emozioni e le nostre stesse difficoltà di base, anche se potrebbero manifestarsi in modo diverso, è fondamentale per favorire un senso di appartenenza.
Approcciarsi al mondo in questo modo è trasformativo perché riscrive la storia dell’appartenenza. In questa ottica non sono più i luoghi che diventano familiari o un gruppo di persone che ci fanno sentire a nostro agio nel mondo: possiamo coltivare l’appartenenza come un’abilità personale che ci sostiene nel superare le separazioni e rafforzare le connessioni con una comunità più ampia di persone, ovunque, in ogni momento.
Scritto da
Jlenia Ermacora
Co-Founder Partner Wyde - Dopo 15 anni di esperienza nella formazione e consulenza presso la prestigiosa Istud Business School sul Lago Maggiore, oggi Jlenia, insieme a Gregorio Di Leo, Co-Founder di Wyde, accompagna le aziende a diventare protagoniste di una continua trasformazione positiva.